Ripensarmi dopo il lutto perinatale

Ripensarmi dopo il lutto perinatale è stato complesso.

L’ho dovuto fare, quando le mie certezze sono venute meno. In realtà da sempre hanno dato segnali di imprevedibilità, tuttavia ho perseverato, cercando soluzioni alternative, ma sempre mantenendo fermo l’obiettivo.
Poi è accaduto che non ci fossero soluzioni alternative: mi sono trovata davanti ad un muro, oppure sul ciglio di un burrone, come preferite.
Sarebbe logico immaginare che quell’evento abbia generato il mio ripensamento, in realtà la faccenda è più sottile: quell’evento mi ha costretto ad una scelta e quella scelta ha generato il ripensamento. Sembra un gioco di parole, ma non lo è: piuttosto è la logica conseguenza dei fatti, senza la smania di sintetizzare, come ci richiede questo nostro tempo, troppo veloce per contenere tutti i passaggi di una vita.

Partiamo dall’inizio.

Ho sempre desiderato una cosa sopra ogni altra: diventare madre, essere madre, fare la madre.
Lo si capisce molto bene nel guardare le scelte della mia vita: sulle prime non ho badato molto a come diventare madre e con chi… Infatti, ad un certo punto, ho preso una deviazione e ho ricostruito la mia maternità più saggiamente.
Tale era il mio desiderio d’essere la madre che immaginavo, da prendere altre vie, che mai avrei pensato possibili, pur di realizzare me e noi, al massimo delle potenzialità.
Non è vero che queste vie, sebbene scelte, non siano costate anche delle rinunce.

Ho rinunciato.

Ad un lavoro, per esempio. Un lavoro tutto mio, autonomo e indipendente. Mi è costato, non l’ho mai negato.

Ma mi sarebbe costato di più lasciare i miei figli in cambio di un impiego precario, presumibilmente poco gratificante e mal pagato.
Sono stata fortunata: ho potuto scegliere di rinunciare, che non significa automaticamente realizzarsi per intero.
Qui è sempre facile mettersi a confronto e giudicare:

Eh, pensa me! Che i miei figli devo lasciarli per forza!

Eh, beata te! E ancora ti lamenti.

No, non mi lamento. Espongo i fatti. E non per mettermi a confronto, bensì per raccontare che non è facile, anche se a qualcuno può sembrare…

Così, ad un certo punto io sono stata mamma e ho potuto fare la mamma, nient’altro che la mamma, dalla mattina alla sera, dal lunedì alla domenica, senza pause, né interruzioni.

Significa avere la testa sempre piena dei figli, delle loro richieste, dei bisogni, fra influenze e la socializzazione, fra il loro crescere e il mio star loro dietro, con la sensazione d’essere sempre un secondo in ritardo. Sempre.
Mesi senza dormire, anni senza un tempo solo per me.
Ero felice?
Ero nei panni che avevo scelto e tenevo botta. Qualche volta non ero felice. Altre volte lo ero a dismisura.
Quindi ero questo, con i miei alti e bassi, col rimpianto di non avere mai una scusa per mollare, almeno un po’.
Volevo fare bene quel che avevo scelto di fare e, nonostante la fatica, non ne avevo ancora abbastanza: i figli erano il centro del mio valore.

Così quando ne sono arrivate un paio morte, beh… non sono state solo due figlie morte, che già di per sé sarebbe stato abbastanza, ma ero anche io, incapace di fare ciò per cui avevo rinunciato a tutto il resto.

Non è stata solo morte, è stato il fallimento del mio senso di esistere.

Qui ho vacillato. E non aveva importanza che in parte fossi riuscita a dimostrare a me e al mondo quanto fossi all’altezza del ruolo di cui mi ero investita, visto che un altro paio di figlie vive potevo contarle. Perché non funziona così. Non con me.
Avevo 35 anni e la mia ‘carriera’ era irrimediabilmente compromessa. Non sapevo nemmeno bene il motivo. Non potevo cercare di migliorare o aggiustare il tiro. Ero inutile.
Inutile.
Sentite come suona?
Qui c’è voluto un colpo di reni, un’intuizione che non so bene da dove mi sia venuta, ma m’è venuta.
Potevo essere anche altro.
Dovevo essere anche altro.
Per trovare un senso del vivere, dovevo spostare la maternità dal centro della mia esistenza ad una componente sostanziosa della mia esistenza.
Dovevo ripensarmi.

Ripensarmi dopo il lutto perinatale è stato complesso.

Avevo dei desideri, ma anche dei bisogni, delle speranze e delle fantasie.
Stop.
Sapevo che più nulla sarebbe potuto andare come avrei immaginato.
Dovevo smettere di immaginare.
Dovevo fermarmi a ciò che c’era.
Fermarmi.
Stop.
Quel tempo che non m’ero mai concessa, sempre di corsa dietro il mio sogno di maternità, me lo sono dovuto prendere e ho incontrato me.
Sono cadute le maschere ed è venuta fuori una persona che conoscevo solo in parte.
Non tutto della maternità mi piace, non tutto del mio essere madre mi piace, non tutto di me mi piace.
Non sono solo una madre.
Sono una persona, una donna, un cervello che pensa, una potenziale azione nel mondo (il mio piccolo mondo) che può offrire un contributo.

Non sono solo i figli che circolano e quelli sepolti: non mi fermo lì.

Ecco il mio valore: sono tutto ciò che desidero essere, per cui sono disposta ad impegnarmi, che mi dia soddisfazione.
Ci è voluto molto tempo perché comprendessi e si comprendesse, quanto fosse importante il mio bisogno di staccarmi dai figli e diventare autonoma.
Avere una vita mia, al di là di loro. Loro che possono morire e io posso restare un nulla nel nulla, senza storia, né valore.
Così mi sono ritagliata uno spazio tutto mio, fatto di cose mie, di pensieri miei, di persone che ho incontrato io e di soddisfazioni che abbiamo raccolto insieme.

Mi sono appassionata di lutto. E detto così fa ridere: come fa ad appassionarmi il lutto?

Beh, il lutto svela l’essenza delle persone, mette a nudo le fragilità, fa cadere le maschere. Incontro l’umano nella sua autenticità e caspita! È un privilegio.
Il lutto è una parte della mia vita solo mia: ci sono io e tutti i miei morti, non faccio torto a nessuno dissertando di noi. Insomma, nessuno si è lamentato finora.
Avrei potuto scegliere tante altre cose, ma forse, perché è stato proprio il lutto a spingere perché mi ripensassi, che forse per questo l’ho così a cuore.
Tuttavia è stata la mia scelta di staccarmi dal mio essere madre e permettermi d’essere anche altro, ad avermi concesso di dispiegare un poco le ali.
Queste ali che fanno così paura perché talvolta mi portano lontano e che amo così tanto perché mi rendono libera di scegliere ogni giorno chi voglio essere.

Pubblicato per la prima volta il 28 febbraio 2020

Nato vivo

La gravidanza dopo il lutto perinatale

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