Il lutto negato

Il lutto è il sentimento di profondo dolore e smarrimento conseguente la morte di una persona cara.

La morte ha manifestazioni oggettive attraverso cui possiamo accertarla e, di conseguenza, siamo condotti lungo un percorso rituale (e burocratico) che ha origine decine di migliaia di anni fa, per accompagnarci ad accettarla.

L’elemento fondamentale che determina la certezza della morte è il cadavere.

Il cadavere, eccetto situazioni margine in cui non è possibile disporne materialmente, come in caso di naufragio, morte in incidenti aerei, dispersione, ecc., ci mette di fronte alla realtà concreta dei fatti: il corpo di colui/lei che avevamo amato, a cui eravamo legati e di cui conoscevamo i lineamenti, è senza vita. Il cuore ha cessato di battere, gli organi hanno ceduto, la pelle non è più irrorata, il colorito va cambiando, e così via.

Di fronte al corpo morto, il dolente non può che constatare l’ineluttabile.

Generalmente da questo momento cominciano ad arrivare le condoglianze: un modo formale, codificato, di avvicinarsi al dolente e restituirgli la verità rispetto alla situazione che sta vivendo. Il suo amato non c’è più e il dispiacere rispettoso per la morte di quella persona, insieme al dispiacere per il dolore che sta provando, diventa fatto collettivo.

Si pone dunque una questione di ordine pratico: come gestire il cadavere?

Ecco che migliaia di anni di pratica, uniti alla cultura e ai costumi del nostro tempo, ci offrono un percorso a tappe che ci accompagna verso l’addio al nostro amato estinto.

Documenti, impresari di pompe funebri, la scelta della bara, la scelta del rito, la scelta fra sepoltura o cremazione, la scelta del luogo di sepoltura o conservazione, la scelta della lapide.

Poter organizzare il funerale significa annunciare pubblicamente la morte della persona cara, permettere alla comunità di stringersi intorno ai dolenti, per supportarli nell’ultimo saluto.

La scelta della bara, la sepoltura o la tumulazione, come anche la dispersione delle ceneri, consente in alcuni casi di esaudire le volontà del deceduto, o di fare il meglio che si ritiene per lui, mantenendosi ancora un poco in contatto con lui e preparandosi all’addio definitivo, trovando un luogo che sarà la sua casa di lì in avanti, in cui lasciarlo e poterlo eventualmente ritrovare.

Le procedure burocratiche producono documenti, nero su bianco, che ancora restituiscono la realtà: l’amato è morto, l’estratto di morte ne è la prova.

Le pratiche di successione, talvolta faticose e complesse, oltre che onerose, ridistribuiscono gli averi e ancora sottolineeranno come nella vita terrena questa persona non esista più.

A seconda del grado di parentela, ai dolenti è concesso chiedere un periodo di permesso dal lavoro: il permesso per lutto. A fronte della presentazione del certificato di morte, sono concessi 3 giorni di congedo.

A livello sociale, posto che oggi siamo perlopiù incapaci di gestire la morte e il dolore dei luttuanti, per un periodo di tempo più o meno lungo, sarà concesso di mostrarsi afflitti.

In caso di lutto perinatale raramente esiste un corpo vivo fuori dal grembo della madre, prima di un corpo morto.

Le ultime rilevazioni statistiche ci dicono che su 1.000 nati vivi, 4 muoiono in epoca perinatale, ovvero tra la 28esima settimana di gestazione e i 7 giorni dopo il parto.

Solo in questi casi, cioè in 4 casi su 1.000 nati vivi, si è di fronte ad un corpo morto, che però non ha avuto uno storico di vita (memoria). Ha un certificato di nascita e morte a breve distanza, oppure solo di morte. Il corpo è spesso solo cadavere.

Le statistiche ci dicono anche che un numero imprecisato di gravidanze si interrompe in epoca prenatale, ovvero prima delle 28 settimane. I dati sono discordanti: variano dal 15 al 50%. Senza voler essere troppo pessimista, suggerisco di considerare un dato intermedio, al ribasso: poniamo siano il 25% delle gravidanze ad interrompersi. Vuol dire che su 1.000 nati vivi, quindi su 1.000 gravidanze non interrotte, 333 si sono interrotte.

Portiamo questi dati in nella realtà e, per esempio, consideriamo Genova nel 2017, una città che contava 580.097 abitanti.

Nello stesso anno a Genova sono morte 8.344 persone e sono nati vivi 3.672 bambini, 14 sono presumibilmente morti tra le 28 settimane di gestazione e i 7 giorni di vita (4 su 1.000), e 1.224 sono presumibilmente stati abortiti (25% della totalità delle gravidanze).

A Genova, presumibilmente, nel 2017 ci sono stati un migliaio o più di genitori che non hanno avuto il corpo vivo del loro figlio: non lo hanno proprio mai visto vivo.

Il figlio spesso è morto dentro il corpo della madre.

Se hanno potuto vedere il corpo, hanno visto solo il cadavere.

Nella quasi totalità dei casi, nessuno ha fatto loro le condoglianze, nessuna bara, nessun funerale, nessuna sepoltura, nessun nome, nessun documento, a parte l’istologico riportante diciture come: materiale del concepimento o materiale abortivo. Nessun permesso per lutto.

I reduci da questa esperienza hanno avuto la possibilità di mettersi in malattia, come se la loro afflizione fosse una patologia e non la normalità del lutto. Solo le mamme che hanno perso il loro figlio dopo il 180° giorno di gestazione, hanno avuto diritto al congedo di maternità: fermarsi dal lavoro per accudire un neonato che non c’è. Una contraddizione in termini, che non ha certo bisogno d’essere eliminata, piuttosto necessita di cambiare definizione, perché fino a quando non useremo le parole per affermare i concetti, essi non esisteranno.

Finché non chiameremo Lutto il lutto perinatale e non faremo le cose del lutto, questo resterà un lutto negato.

Nei rari casi in cui qualcuno abbia deciso di far corrispondere la morte a gesti di normalizzazione, grazie al fatto che sapeva di poterlo fare o dopo aver cercato in rete, poiché raramente la comunicazione in ospedale è completa, empatica ed efficace, a Genova, ha probabilmente ottenuto una bara di legno grezzo con un’etichetta riportante il nome della madre, un documento da firmare dichiarando il disinteresse per il feto, da consegnare all’azienda di smaltimento dei rifiuti, che ha portato il figlio al cimitero di Staglieno, dove è stato sepolto in un campo dedicato ai feti e delle parti anatomiche riconoscibili, insieme.

Da notare che il tempo concesso alle persone per decidere in merito alla sepoltura di un embrione/feto è di 24 ore, mentre per un arto è di 48. Un embrione o feto, in genere, resta in patologia neonatale per settimane in attesa di esame istologico, un arto non sempre. I tempi di sepoltura di un embrione o un feto, possono essere anche molto lunghi, nonostante la fretta nel dover decidere.

Le persone che vivono questa esperienza, nella maggior parte dei casi, non si sentono in diritto di dirsi genitori, perché nessuno li considera tali e tutto intorno a loro dice che in effetti non lo sono.

Alcuni non vogliono proprio dirsi e sentirsi genitori, e devono essere rispettati.

Tuttavia, coloro che invece genitori si sentono, se non sono considerati tali, senza accesso al normale iter di un genitore a cui muore un figlio, allora vivranno una profonda contraddizione, un vuoto di senso e significato verso quanto accaduto. Senza potersi dire genitori e senza poter fare i genitori, non possono considerare il loro embrione o feto, un figlio; se non è un figlio, facilmente non è niente, non è esistito, infatti è definito Mai nato, persino da alcuni di coloro che di questo lutto si occupano, e se non è esistito, allora non c’è lutto.

Per affermare che il lutto perinatale sia un lutto come gli altri, abbiamo necessità di affermare prima che questo lutto esista.

Dobbiamo mutare la cultura intorno a questo evento affinché lo consideri un fatto reale, con ripercussioni reali, non sia più un lutto negato, quindi dobbiamo lavorare affinché sia trattato come gli altri.

Noi possiamo fare esercizio dialettico nel dire che è come gli altri, pertanto non ha bisogno d’essere differenziato, a mio parere dimostrando una profonda miopia.

La società non vuole affrontare il fatto che questo lutto esista, è troppo scomodo: politicamente, eticamente, emotivamente. Fa gioco lasciare che stia nel lutto in generale, senza che ce ne si occupi in modo particolare.

Questo lutto esiste a mala pena sulla carta, ma nella pratica è un lutto negato e non vedo altro modo di portarlo alla luce se non continuando ad affermare che esiste, nella sua specificità, pretendendo che abbia accesso alle consuetudini legate alla morte. Il giorno che otterrà il diritto pieno di accedere alle consuetudini legate alla morte, potremo finalmente togliere l’aggettivo perinatale e uniformarlo agli altri lutti. Fino ad allora, negare le differenze è come relegarlo a tabù.

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