Il figlio arcobaleno

«Tu hai un figlio arcobaleno?»

«Mh… Questa domanda mi crea sempre disagio…»

«Perché?»

«Perché non è mia intenzione mettere in difficoltà chi me la pone, allo stesso tempo vorrei dare una risposta coerente col mio sentire.»

«Non capisco…»

«Cosa intendi per figlio arcobaleno?»

«Beh, intendo quel figlio nato dopo la tempesta…»

«Cioè?»

«Dopo la perdita di un altro figlio…»

«Quindi la morte di suo fratello.»

«Sì…»

«Senti come suona?»

«Come suona cosa?»

«Questa definizione: figlio arcobaleno.»

«Suona bene! Non ti pare? È una bella cosa, un bel traguardo! Sei riuscita ad avere il tuo arcobaleno! Dopo

tutto quel dolore, finalmente una cosa bella.»

«Ecco, l’hai detto.»

«Detto cosa?»

«Dopo tutto quel dolore, finalmente una cosa bella.»

«Non capisco…»

«Mio figlio è “una cosa bella”, come lo definisci tu, a prescindere da chi sia morto prima e dal dolore che ho provato. Tu lo chiami arcobaleno e in questo modo prima di lui metti in evidenza il fratello morto, poi il mio dolore, poi quanto coraggio e determinazione abbia avuto perché potesse nascere. Questo bambino porta in sé un retaggio che lo offusca. Non mi piace.»

«…»

Classificazione: 5 su 5.

«Il fatto è che non mi piacciono le etichette.»

«Le etichette?»

«Mio figlio è mio figlio, non è un arcobaleno. Ogni figlio è diverso dall’altro e porta in sé l’esperienza collezionata fino al suo arrivo. Però etichettiamo solo i figli morti e quelli nati dopo. Perché?»

«Eh, te lo domando io: perché?»

«Perché sono esperienze forti, che cambiano la vita; esperienze di cui non si parla e di cui non si tiene conto, per questo è importante mettere in chiaro le cose, così che le persone si possano approcciare nel modo migliore…»

«Esatto.»

«Quindi, oltre a venire dopo il fratello morto, il mio dolore e il mio coraggio di metterlo al mondo, deve anche essere mezzo di diffusione per una cultura che noi adulti siamo incapaci di veicolare autonomamente?»

«Ma no! Secondo me sei esagerata.»

«Quanti figli hai?»

«Io?»

«Tu, quanti figli hai?»

«Due figli: uno di cielo e uno di terra, spero di raggiungere il mio arcobaleno, prima o poi.»

«Ecco.»

«Ecco cosa?»

«Non riesci a dirlo.»

«Dire cosa?»

«Che hai due figli e uno è morto.»

«L’ho detto!»

«Hai detto “di cielo”, non morto.»

«È uguale!»

«Non è uguale. È a questo che servono le etichette: svicolare ciò che noi non riusciamo a fare, edulcorare una realtà che nemmeno noi riusciamo ancora a chiamare col suo nome, così cediamo la responsabilità ai nostri figli, etichettandoli. Sono le loro etichette a raccontare la nostra storia. Io non li voglio caricare di questa responsabilità. Perciò non ho figli in cielo, in terra, arcobaleni o altro. I miei sono solo figli ed io sono solo madre. Per i miei figli ho scelto un nome proprio ed è con quello che li chiamo. Nessuna altra etichetta racconta la loro storia. Saranno loro a raccontare di loro ciò che vorranno. Non io. In ogni modo ho un figlio nato dopo due figlie morte: si chiama Tristano.»

«Ah! Allora hai un figlio arcobaleno! Bene, sono contenta per te! Ce l’hai fatta!»

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