Il lutto è un’esperienza

Si compiono diverse esperienze nella vita, alcune quotidiane, altre occasionali, alcune identiche per ognuno di noi, altre singolari.

Tutti noi nasciamo, ma non tutti allo stesso modo.

Tutti noi impariamo a camminare, ma non tutti con gli stessi tempi e attraversando le stesse tappe.

Tutti noi sperimentiamo l’affettività, ma non tutti la stessa affettività e non tutti ci rapportiamo con essa nello stesso modo.

Tutti noi sperimentiamo la morte, in qualche modo, prima o dopo, che sia di un nostro caro o la nostra direttamente, con la morte siamo costretti tutti ad avere a che fare.

Il lutto è un’esperienza anch’esso.

Come ci rapportiamo con le diverse esperienze che siamo chiamati ad affrontare ogni giorno?

Di solito ci rapportiamo ad esse così come ci hanno insegnato a fare. Oppure come abbiamo visto fare.

È l’esempio che ci invia il primo feedback di quale sia il modo giusto per sopravvivere.

A me è capitato di avere acquisito un feedback preciso di cosa si facesse in caso di lutto e avevo già sperimentato alcuni fondamentali aspetti emotivi prodotti dalla morte di un mio caro (mia madre), così è stato sulla base di questo che ho cercato di trovare una sintesi adeguata al lutto perinatale.

Probabilmente è sulla base di questa prima importante esperienza luttuosa che mi è stato tanto difficile comprendere la serie di azioni suggerite per affrontare il lutto perinatale, azioni molto diverse da quelle già registrate come adeguate.

Per esempio, quando l’ostetrica mi ha porto mia figlia, appena partorita, io non l’ho voluta. Anzi, mi sono chiesta perchè prima di porgermerla non avesse pensato di chiederci cosa avremmo voluto fare. E se con quel gesto l’avessimo vista?

Noi non la volevamo vedere, fra di noi lo avevamo già deciso. Perchè non era così che volevamo ricordarla: preferivamo di gran lunga tenerci un’immagine ideale, piuttosto che quella di un feto morto da quattro settimane e ormai mummificato.

Quella bambina non era solo nostra figlia: era nostra figlia morta. Fare come se fosse viva, non è contraddittorio?

Avere del proprio figlio un’immagine sgradevole, non è problematico da gestire quanto il fatto di non avere alcuna immagine, quindi  al più solo un’immagine ideale?

Perché è stato dato per scontato che una figlia partorita morta si dovesse guardare?

Perché lo si è dato per scontato senza offrirci alcun sostegno capace di aiutarci a guardare un cadavere deforme e mummificato?

Perché quando un adulto muore e il suo aspetto è tragicamente compromesso, ci si attiva per chiudere il prima possibile la bara, si sconsiglia la vista ai soggetti più impressionabili, si avvisa delle sue condizioni, mentre per un figlio partorito morto talvolta non vige la stessa delicatezza?

Altre consuetudini, suggerite come gesti significativi, mi fanno riflettere: per esempio quella di fare il calco dei piedini dei bambini deceduti. In quel caso mi sono vista intenta a fare e poi conservare un calco dei piedi di mia madre e… no, non era proprio qualcosa che mi avrebbe aiutato a stare meglio.

Nessuno ha pensato che fosse utile farmi lavare mia madre e prepararla. Ma ho scelto io gli abiti che avrebbe indossato nella bara.

Nessuno ha pensato che sarebbe stato utile fotografare mia madre morta. Ma ho scelto io una bella foto per la lapide.

Certo, si può dire che di mia madre ci fosse un passato: montagne di scarpe nella scarpiera, e quantità di foto che la ritraevano nel tempo. Con mia madre la relazione era differente: il prendersi cura fisicamente di un figlio piccolo, non è come prendersi cura di un genitore ancora giovane.

Tuttavia è proprio nelle differenze che proseguo a non trovare differenza 😉

Anche le mie figlie contavano di un passato.

Un passato fatto di ecografie.

Troppo poco?

Abbastanza.

In verità è tutto quello che abbiamo avuto e cercare di spostare in avanti un tempo già fermo, non non ne vedevo l’utilità.

Mi sono presa cura ugualmente delle mie figlie, senza guardarle, nè prenderle in braccio. L’ho fatto quando e finchè ho potuto, cioè durante la loro vita. Poi ho messo in atto i gesti di cui avevo maturato esperienza: la sepoltura, la lapide…

Ho fatto fatica ad incrociare le opzioni suggerite con l’esperienza maturata sulla morte e il lutto, poichè le trovavo profondamente discordanti.

L’impressione che ho è che le consuetudini legate ad un lutto ordinario definiscono un’esistenza espletata e conclusa. Mentre consuetudini tanto diverse legate al lutto perinatale, sottolineano un’esistenza vaga e da protrarre, in qualche modo, per il maggior tempo possibile, anche per sempre.

Ciò che ha dato pace al tormentoso senso di contraddizione, è stato scoprire e accettare le mie figlie esattamente come delle figlie vere. Perciò come dei morti veri.

Scegliere di fare per le mie figlie quel che avevo fatto per mia madre, ha reso le mie figlie reali quanto lo è stata mia madre.

Realmente vissute, realmente parte della mia esistenza, realmente morte.

Esistono buone ragioni per indicare alcune azioni come possibili. Sono le ragioni che Novella spiegherà prossimamente 😀

Tuttavia esistono altrettante buone ragioni per non cogliere quei suggerimenti e fare in un altro modo.

il lutto è un'esperienza
Salvador Dalì, La persistenza sulla memoria

Curiosità

E il giorno in cui decisi di dipingere orologi, li dipinsi molli. Accadde una sera che mi sentivo stanco e avevo un leggero mal di testa, il che mi succede alquanto raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e invece, all’ultimo momento, io decisi di rimanere a casa. Gala, però, uscì ugualmente mentre io pensavo di andare subito a letto. A completamento della cena avevamo mangiato un camembert molto forte e, dopo che tutti se ne furono andati, io rimasi a lungo seduto a tavola, a meditare sul problema filosofico dell’ipermollezza posto da quel formaggio. Mi alzai, andai nel mio atelier, com’è mia abitudine, accesi la luce per gettare un ultimo sguardo sul dipinto cui stavo lavorando. Il quadro rappresentava una veduta di Port Lligat; gli scogli giacevano in una luce alborea, trasparente, malinconica e, in primo piano, si vedeva un ulivo dai rami tagliati e privi di foglie. Sapevo che l’atmosfera che mi era riuscito di creare in quel dipinto doveva servire come sfondo a un’idea, ma non sapevo ancora minimamente quale sarebbe stata. Stavo già per spegnere la luce, quando d’un tratto, vidi la soluzione. Vidi due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tormentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato.

Salvador Dalì

Dalì con La persistenza sulla memoria riflette sulla relatività del tempo. Il suo scorrere è cupamente scandito dal moto cadenzato degli orologi, che pretendono di misurare oggettivamente questa dimensione; eppure, a giudizio di Dalì, questi strumenti tecnici sono messi in crisi dalla memoria umana, un dato né quantificabile né tangibile che è alla base della soggettività del tempo.

(Fonte: Wikipedia)