«Ti capisco», una frase che dico MAI

Ti capisco…

Sono una mamma che ha appena scoperto che suo figlio è morto e davanti a me c’è un’ostetrica: una donna dall’aria saggia, di quelle che ne hanno viste tante.

«Ti capisco…», mi dice e mentre giustifica la sua affermazione raccontandomi di come lei stessa abbia perso alcuni dei suoi figli, io penso che le sue parole mi stiano arrivando come lame affilate: come mi permetto io di soffrire per un figlio morto di fronte ad una donna che ne conta tre?

Nonostante le sue siano le migliori intenzioni, se mi capisse veramente, saprebbe che le sue parole per me non sono di conforto.

È la prima volta che mi vede e le uniche informazioni che ci siamo scambiate sono di dolore e morte: come può capirmi davvero? Quanti aspetti ha il dolore e quanti modi ci sono di affrontare la morte?

«Solo chi ci è passato può capirti», si dice. Eppure molti di coloro che ci sono passati hanno saputo capirmi anche meno di altri…

Aver passato noi stessi un’esperienza simile, ci offre la chiave perfetta di comprensione di ogni persona che incontriamo sul nostro cammino?

Quanto aver attraversato un’esperienza difficile ci autorizza a sentirci dotti sulle analoghe esperienze altrui?

Quanto bisogno c’è di continuare a riparare un nostro dolore nel dare all’altro la nostra comprensione e spesso tutte le soluzioni che abbiamo faticosamente trovato per noi?

La nostra esperienza e la nostra certezza di capire, ci mettono davvero in ascolto dell’altro, oppure è un costante e infinito ascolto di noi stessi, della nostra pena, attraverso gli altri?

C’è una donna dall’altro capo del web. È giovane, meno giovane, mia coetanea…

Scrive e mi racconta del suo dolore: ha perso un figlio, mesi fa, settimane fa, giorni fa. Lo attendeva da alcune settimane, da alcuni mesi, era appena nato.

«E ora cosa faccio? », mi chiede.

Il suo dolore risuona dentro di me come un’eco. È una pena che forse conosco, ma non ne sono sicura. Richiama ricordi che sono solo miei. Richiama la sofferenza che è stata mia. Ma ora non è del mio dolore che si tratta. Qui solo il suo importa.

Non ho una risposta alla sua domanda: non esistono formule scaccia dolore. Eppure un moto impetuoso parte dal mio più profondo: vorrei dirle che ce la farà.

Noi umani siamo fatti per farcela.

Mi arresto e non lo scrivo. In verità a volte lo scrivo e poi lo cancello. Ho imparato che non tutti si sentono meglio nel sapere ciò che per me è stato salvifico. Qui non si tratta di me. Qui solo lei importa.

Lei chi è? Non la conosco, non so nulla, né dove vive, né quale sia la sua storia, né alcunché.

Vorrei conoscerla meglio, ma vado cauta, perché ho imparato che non tutti hanno piacere di raccontare di loro stessi.

Scrivere ad una sconosciuta è un grido di aiuto e a me giunge forte e chiaro.

ti capiscoIl grido è di questa mamma, non il mio. Perciò non è dell’aiuto di cui ho beneficiato io di cui ha necessariamente bisogno.

«Io sono una mamma come te. Non sono una psicologa o un medico, ho solo la mia esperienza. In questi anni ho capito che ognuno trova il suo modo di attraversare questo dolore. Non ci sono formule. Serve pazienza. Di famiglie che vivono un dolore simile al tuo ce ne sono tante, purtroppo. Capita a molti. Non sei sola. Io sono qui e resto qui. Ti ascolto, qualunque cosa tu abbia piacere di raccontarmi.»

La mamma mi racconta di sé, della fatica, degli altri figli, degli altri figli che non ha, del marito, del compagno che non ha più, del lavoro, dei genitori o nulla. Non ha parole. Perché a volte il dolore spezza le parole in gola. Ed è silenzio.

A volte riesco a dare qualche indicazione utile: il consultorio, uno psicologo, un gruppo di Auto Mutuo Aiuto, oppure semplicemente una persona, senza volto, all’altro capo della rete che c’è: io resto.

La parte più difficile è il silenzio.

Quando accade, ogni tanto guardo il telefono e spero di trovare un messaggio.

A volte tutto rimane muto, allora spero. Spero che quella mamma stia trovando il suo modo di trasformare il dolore in un ricordo buono.

Ecco, io non solo ho la sensazione di non potere davvero capire il dolore peculiare di quelle madri, io so che non posso capirlo, ma la loro pena risuona in me.

Non posso riparare al loro dolore. In quanto al mio, qui non c’entra. Tuttavia posso provare a farle sentire meno sole nella loro pena. Qualche volta ho la sensazione di riuscirci, altre volte no.

«Ti capisco» è una frase che uso MAI perché in quel Ti capisco, in un modo o nell’altro, ci sarebbe un po’ della mia esperienza e la mia presunzione di capire in virtù di essa.

Di fronte a chi mi racconta di sé non voglio che la mia esperienza si faccia tanto ingombrante.

Non posso capire, ma voglio sentire.

Ho scelto io di pormi in ascolto del dolore altrui e in ascolto non significa raccontare, ancora e ancora, quella che è stata la mia sofferenza, attraverso l’altro; piuttosto significa attivare orecchie, corpo, mente e cuore, affinché restino bene aperti per accogliere l’altro, permettendogli di sostare in me, perfino nel silenzio.