Ciò che conta davvero alla fine della vita

Ciò che conta davvero alla fine della vita, di BJ Miller

Abbiamo tutti bisogno di una ragione per svegliarci. Per me, ci sono voluti solo 11.000 volt.

So che siete troppo educati per chiederlo, quindi ve lo dirò io.

Una notte, secondo anno del college, appena tornato dalle feste per il Ringraziamento io e alcuni amici gironzolavamo senza meta e decidemmo di arrampicarci su un treno per pendolari in sosta. Eravamo seduti là, con i cavi sopra la testa. Per qualche motivo, all’epoca ci parve una gran bella idea. Avevamo sicuramente fatto cose più stupide. Mi arrampicai velocemente sulla scaletta posteriore e quando mi alzai in piedi, la corrente elettrica entrò nel mio braccio, mi scosse con violenza fino ai piedi, e fu tutto. Ci credereste che quell’orologio funziona ancora? Ha preso una bella botta!

Mio padre ora lo indossa per solidarietà.

Quella notte ebbe inizio il mio rapporto con la morte, la mia morte, e iniziò anche il mio percorso da paziente. È una bella parola. Significa uno che soffre. Quindi siamo tutti pazienti.

Il sistema sanitario americano ha la sua buona dose di inefficienze che accompagnano la sua eccellenza, senza dubbio. Ora sono un medico, mi occupo di medicina palliativa, ho testato il servizio da entrambe le parti. E credetemi: quasi tutti quelli che entrano nel servizio sanitario hanno buone intenzioni, davvero. Ma noi che ci lavoriamo rappresentiamo, nostro malgrado, un sistema che troppo spesso non fornisce servizi.

Perché? Beh, la risposta è abbastanza semplice e spiega molte cose.

Il sistema sanitario è stato concepito per le malattie, non per le persone.

Il che, ovviamente, significa che fu mal concepito. E mai gli effetti di questo sistema sono così strazianti o la necessità di riprogettazione così impellente come alla fine della vita, quando tutte le esperienze si riassumono e si condensano. Non esistono seconde opportunità.

Il mio scopo oggi è quello di creare un dialogo tra le discipline e introdurre in questo dialogo il design thinking. Ovvero, portare buoni propositi e creatività all’esperienza del morire. Abbiamo un’opportunità enorme, ci troviamo di fronte a una delle poche questioni universali che ci toccano come individui e come membri di una società civile: ripensare e riprogettare il modo in cui moriamo.

Quindi cominciamo dalla fine.

Per molte persone, la cosa più spaventosa della morte non è il fatto di morire, ma morire soffrendo.

È una distinzione fondamentale. Per andare più a fondo, potrebbe essere utile distinguere la sofferenza inevitabile, da quella che invece possiamo cambiare.

La prima è una condizione naturale ed essenziale della vita, parte del gioco.

Così siamo portati a essere flessibili, ad adattarci, a crescere. È un bene rendersi conto che esistono forze più grandi di noi. Portano equilibrio, come una riorganizzazione cosmica.

Dopo aver perso gli arti, per esempio, quella perdita è diventata un fatto immutabile, inevitabilmente parte della mia vita, ho capito che non potevo rifiutarlo perché sarebbe stato rifiutare me stesso.

Ci ho messo del tempo, ma alla fine ho capito. Un’altra grande qualità della sofferenza necessaria è che proprio grazie a essa la persona che accudisce e quella che riceve la cura si avvicinano come esseri umani. È in questo che avviene la guarigione. Sì, la compassione, letteralmente, come abbiamo imparato ieri, il soffrire insieme.

Per quanto riguarda il sistema invece, gran parte della sofferenza non è necessaria, è indotta. Non serve a niente.

Ma la buona notizia è che, poiché questa sofferenza non è necessaria, possiamo cambiarla.

Il modo in cui moriamo è qualcosa su cui possiamo intervenire.

Sensibilizzare il sistema su questa distinzione fondamentale tra sofferenza gratuita e sofferenza necessaria è il primo dei tre spunti per questa giornata. Dopotutto il nostro ruolo di medici, di persone che si prendono cura, è quello di alleviare la sofferenza, non di aggiungerne altra.

Questo è vero per le cure palliative, di cui sono sostenitore e che prescrivo come medico. Tra parentesi: la cura palliativa, campo molto importante ma poco compreso, benché lo includa, non si limita a curare chi è in fin di vita. Non si limita agli ospizi. Si occupa di donare conforto e qualità della vita a qualsiasi stadio. Quindi, sappiate che non bisogna essere sul punto di morte per fruire della cura palliativa.

Ora, lasciate che vi presenti Frank. È importante. Frequento Frank da anni ormai. Convive da anni con uno stadio avanzato di cancro alla prostata e l’HIV. Cerchiamo di alleviare il suo dolore. Ma passiamo la maggior parte del tempo a parlare della sua vita. In realtà, delle nostre vite. È così che Frank affronta il dolore. È così che convive con le perdite che arrivano. Così riesce ad accogliere ciò che viene dopo. La perdita è una cosa, ma il rimpianto è tutto un altro discorso. Frank è sempre stato un avventuriero. Sembra uno appena uscito da un dipinto di Norman Rockwell. Non un grande fan del rimpianto. Non fu una sorpresa quando si presentò in clinica, dicendo di voler fare rafting nel fiume Colorado. Era una buona idea? Con tutti i rischi che avrebbe comportato per la sua salute, qualcuno direbbe di no. Molti lo dissero, ma lui lo fece comunque quando ancora poteva. Fu un viaggio glorioso, meraviglioso: Acqua gelida, caldo torrido e asciutto, scorpioni, serpenti, la vita selvaggia che prorompe dalle pareti ardenti del Grand Canyon. La gloriosa porzione di mondo che non si piega al nostro controllo. La scelta di Frank, forse esagerata, è il tipo di scelta che molti di noi farebbero, se soltanto avessimo il supporto per capire cosa è meglio per noi.

Molto di ciò di cui stiamo parlando oggi riguarda il cambio di prospettiva.

Dopo il mio incidente, quando tornai al college, cambiai corso di laurea e scelsi storia dell’arte. Studiare arte visiva mi avrebbe insegnato qualcosa sul come osservare. Una lezione molto importante per un ragazzo che non poteva cambiare gran parte di quello che vedeva. Prospettiva, quella specie di alchimia con la quale noi umani ci intratteniamo, tramutando l’angoscia in un fiore.

Piccola parentesi: ora lavoro in un posto fantastico a San Francisco, lo Zen Hospice Project, e abbiamo un piccolo rituale che ci aiuta con questo cambio di prospettiva. Quando uno dei nostri pazienti muore, gli uomini dell’obitorio ci raggiungono, trasportiamo il corpo fuori in giardino verso il cancello, e ci fermiamo. Chiunque lo desideri, gli altri pazienti, la famiglia gli infermieri, i volontari anche l’autista del carro funebre, condivide una storia o una canzone o il silenzio, mentre ricopriamo il corpo di petali di fiori. Ci vogliono pochi minuti. Un saluto semplice e amorevole per affrontare il dolore con affetto invece che con repulsione.

Contrapponete a questo l’esperienza in un contesto ospedaliero, un po’ come qui: luci potenti, tubi, il bip delle macchine, luci intermittenti che non si arrestano neanche quando l’ha fatto la vita. Entrano gli inservienti, il corpo viene spedito via. È come se quella persona non fosse mai esistita davvero. Tutto in nome della sterilità, certamente. Ma gli ospedali tendono ad assalire i nostri sensi, e ciò che possiamo sperare di ricevere tra quelle pareti è torpore anestetico, letteralmente il contrario di estetico. Riverisco gli ospedali per come agiscono; sono vivo grazie a loro. Ma pretendiamo troppo dai nostri ospedali.

Sono posti predisposti per traumi violenti e malattie curabili. Non sono posti in cui vivere e morire, non sono stati concepiti per questo.

Attenzione, non sto rinunciando all’idea che le nostre istituzioni possano diventare più umane. La bellezza può essere trovata ovunque.

Ho trascorso qualche mese in un Centro Ustionati al St. Barnabas Hospital, a Livingston, New Jersey, dove ho ricevuto delle cure eccellenti, anche cure palliative per il dolore. Una notte, iniziò a nevicare. Ricordo le infermiere lamentarsi per i disagi del traffico con la neve. Non c’erano finestre nella mia stanza. Ma era meraviglioso anche solo immaginarla venire giù, appiccicarsi. Il giorno dopo un’infermiera entrò di soppiatto con una palla di neve. L’aveva portata nel reparto. Non ho parole per esprimere l’estasi che provai nel stringerla nella mano e la sensazione di freschezza sulla mia pelle ustionata. Il miracolo di tutto questo, il mio rapimento nel vederla sciogliersi e trasformarsi in acqua. In quell’istante, il solo fatto di essere parte di questo pianeta, in questo universo, aveva più importanza del vivere o morire. Quella piccola palla di neve mi diede l’ispirazione che mi serviva per provare a vivere o per accettare di non riuscirci. In un ospedale, è un momento prezioso.

Nel mio lavoro, nel corso degli anni, ho conosciuto molte persone pronte ad andarsene, pronte a morire. Non perché avessero trovato la pace interiore o la trascendenza, ma perché provavano repulsione per ciò che la loro vita era diventata, in una parola: spezzata, brutta. Moltissimi di noi convivono già con malattie croniche o terminali, fino a età avanzata. E non siamo minimamente preparati a questo invecchiamento della popolazione. Abbiamo bisogno di un’infrastruttura abbastanza dinamica da sostenere questo grande mutamento della popolazione. Ora è il momento di creare qualcosa di nuovo, di vitale. So che possiamo perché dobbiamo. L’alternativa è inaccettabile. E le parole chiave sono: linea politica, istruzione e preparazione, sistemi, mattoni e cemento. Riceviamo tonnellate di input per designer di tutti i tipi con cui lavorare.

Dalle ricerche sappiamo, ad esempio, cos’è davvero importante per le persone che stanno per morire: comodità, sentirsi più leggeri e non essere un peso per coloro che amano, la pace esistenziale, senso di meraviglia e di spiritualità.

In quasi 30 anni allo Zen Hospice, abbiamo imparato molto dai nostri ospiti grazie a piccoli dettagli. Le piccole cose non sono così piccole.

Prendete Janette. Per lei è sempre più difficile respirare a causa della SLA. Beh… sapete che c’è? Vuole riprendere a fumare, sigarette francesi, se non vi spiace. Non per un’inclinazione all’autodistruzione, ma per sentire i suoi polmoni riempirsi, finché ce li ha ancora. Le priorità cambiano. O Kate, che vuole solo sapere che il suo cane Austin riposa ai piedi del suo letto, il suo muso freddo sulla sua pelle secca, invece che altra chemioterapia che scorra nelle sue vene. L’ha fatto. Quella sensuale, estetica gratificazione in cui per un momento, un solo istante, siamo premiati per il solo fatto di esistere. Buona parte viene dall’amare la nostra vita con i sensi, con il corpo, ciò che ci rende esseri viventi o morenti.

Probabilmente la stanza più intensa nella residenza Zen Hospice è la cucina, che è abbastanza strano quando realizzi che i nostri residenti possono mangiare davvero poco, se non niente. Ma abbiamo capito che la cucina dà loro un sostegno a vari livelli: l’olfatto, un aeroplano simbolico.

Seriamente, con tutte le faccende pesanti che accadono sotto il nostro tetto, uno degli interventi più sperimentati e più riusciti che conosciamo è cuocere biscotti.

Finché abbiamo i nostri sensi, anche solo uno, abbiamo almeno la possibilità di accedere a ciò che ci rende umani, connessi. Immaginate il fremito che questa nozione può provocare nei milioni di persone che convivono e muoiono con la demenza. Il piacere sensoriale primario che narra le cose per cui non abbiamo parole, impulsi che ci fanno rimanere nel presente, senza bisogno di passato o futuro.

Dunque, se rimuovere la sofferenza non necessaria era il primo spunto, allora riconferire la dignità tramite i sensi, tramite il corpo, il regno estetico, è il secondo spunto.

Questo ci porta velocemente al terzo e ultimo assaggio per oggi. Cioè, dobbiamo elevare il nostro sguardo per fissarlo sul benessere, così che la vita, la salute e l’assistenza possano orientarsi a rendere la vita meravigliosa, invece che solamente meno orribile. Beneficenza.

Ecco che si arriva qui alla distinzione tra un modello di cura basato su malattia e uno basato sul paziente, sulla persona e qui è dove la cura diventa creativa, generativa, addirittura giocosa. “Gioco” può sembrare una parola strana qui. Ma è anche una delle nostre più alte forme di adattamento. Considerate ogni bisogno imprescindibile per essere umani. Il bisogno di cibo ha dato vita alla cucina. Il bisogno di un riparo ha dato vita all’architettura. Il bisogno di coprirsi ha dato vita alla moda. E poiché siamo soggetti allo scorrere del tempo, beh, abbiamo inventato la musica.

Perciò, poiché la morte è una parte necessaria della vita, cosa potremmo creare con questo?

Con “gioco” non intendo certo usare un approccio frivolo alla morte o che si raccomandi un certo modo di morire. Ci sono montagne di dolore che non possono essere spostate e in un modo o nell’altro ci inginocchieremo tutti lì. Piuttosto, suggerisco che venga fatto spazio, spazio fisico e psichico che permetta alla vita di esprimersi così che invece che andarsene, la vecchiaia e la morte possano diventare un processo in crescendo fino alla fine. Non possiamo evitare la morte. So che qualcuno di voi ci sta lavorando.

Ma nel frattempo, possiamo…

Possiamo ridefinirla. Una parte di me è morta tempo fa ed è qualcosa che, bene o male, possiamo affermare tutti. Ho dovuto ridisegnare la mia vita intorno a questo fatto, e posso dirvi che è stata una liberazione realizzare che puoi sempre trovare un guizzo di bellezza o di senso nella vita che ti è rimasta, come la palla di neve, che è durata per un momento perfetto, sciogliendosi nel frattempo. Se amiamo questi momenti intensamente allora forse possiamo imparare a vivere bene non malgrado la morte, ma grazie alla morte.

Lasciamo che sia la morte a condurci, non la mancanza di immaginazione.

Grazie.